Nel momento in cui scriviamo, sembrano scongiurati nuovi lockdown con la stessa estensione e rigidità del primo. C’è motivo di credere (e di sperare) che l’esperienza di marzo e aprile 2020 rimarrà unica e irripetibile. Motivo in più per indagare a fondo i risvolti di quel periodo: dopo aver analizzato le immagini in circolazione durante la pandemia da un
punto di vista semiotico, abbiamo pensato di intervistare due fotografi che hanno realizzato lavori su Milano, Venezia e Napoli durante quella che il governo italiano chiamò “Fase Uno”, con un occhio di riguardo per il ruolo della luce.
Luca Campigotto ha partecipato al progetto collettivo
Piazze [In]visibili con due foto di Piazza del Duomo a Milano e di Piazza San Marco a Venezia. Al libro hanno contribuito quaranta tra scrittori e scrittrici, fotografi e fotografe; le immagini di Campigotto sono accompagnate rispettivamente da testi di Helena Janeczek e Francesco Cataluccio. Nello scattare quelle foto e le altre di quei giorni, Campigotto non si è mai posto l’obiettivo di affrontare il tema del lockdown in sé. “Sono trentacinque anni che fotografo spazi vuoti, urbani e naturali”, spiega. “Lo faccio perché trovo che questi luoghi abbiano una sorta di solitudine eroica, che mi parla moltissimo e che trovo struggente e poetica. La presenza umana piegherebbe la fotografia a un volere diverso – diventerebbe la storia delle persone contenute nell’immagine, qualunque cosa stiano facendo – mentre lo spazio vuoto è un canovaccio libero su cui proiettare la propria fantasia”. Nonostante la consuetudine con gli spazi vuoti, le città sospese si sono dimostrate un soggetto ostico: “Non mi è sembrato che le foto trasmettessero la forza che pensavo; non erano tanto particolari quanto era particolare la situazione che stavamo attraversando”. La percezione di questa difficoltà, come vedremo, tornerà più volte.
Eduardo Castaldo ha lavorato a lungo come fotoreporter in Sud Italia, in Medio Oriente e altrove, raccontando avvenimenti e contesti legati a criminalità e conflitti. Negli ultimi anni ha lavorato spesso come fotografo di scena sui set di film e serie tv, tra cui
L’amica geniale. Durante il lockdown ha realizzato per il
Madre (Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina) Intervallo, una serie di foto e video di Napoli diffusa dai canali social del museo tra aprile e giugno 2020 con l’hashtag
#intervallonapoli2020.
Il riferimento nel titolo è ai vecchi filmati riempitivi che la RAI utilizzava per colmare i vuoti di palinsesto: scorci paesaggistici e immagini di monumenti italiani, con sottofondo di musica classica per orchestra e arpa, e l’indicazione del luogo in sovrimpressione. È un format simile, quello usato da Castaldo per indagare l’atmosfera sospesa e irreale nel capoluogo campano a serrande abbassate. “Poter circolare per la città in quei giorni era un privilegio”, dice Castaldo, “e a quel privilegio ho voluto dare un senso. Ho fatto ricorso a video e audio, per raccontare il contesto, perché era difficile dare valore e forza alle singole immagini”.
Abbiamo messo in dialogo le esperienze di Campigotto e Castaldo con un’intervista doppia.
Piazza del Duomo in Milan, © Luca Campigotto 2020
Quali tratti delle nostre città sono emersi durante il lockdown, dal vostro punto di vista? Quali avete cercato di sottolineare con il vostro sguardo?
LC: Ho affrontato queste fotografie come faccio sempre: guardando uno spazio vuoto e pensandolo come una scenografia; “senza tempo”, direi, se fosse possibile. Non volevo rendere un’atmosfera particolare ma far parlare l’evidenza poetica, la bellezza degli spazi vuoti. Tuttavia non ho trovato che le mie foto a Milano trasmettessero grande forza, perché non catturavano il dramma che invece si percepiva camminando per le strade. A quello contribuivano molto i silenzi e i rumori; per esempio, le sirene delle ambulanze. Il sottofondo sonoro era più impressionante del vuoto che avevo davanti.
Da Milano mi sono spostato a Venezia, e mi ha colpito moltissimo la differenza tra le due. Avevo avuto la percezione di una Milano triste, in ginocchio, priva dell’energia che normalmente sprigiona. I tram giravano vuoti ma sempre puntuali, come se non fosse successo niente; sembravano aghi che lungo le strade cercavano di cucire delle ferite. Venezia invece sembrava una città liberata, felice di non avere più nessuno tra i piedi, ebbra della sua bellezza straordinaria e senza tempo. Si sentiva un pochino il rumore del vento e qualche gabbiano in lontananza; c’era un’atmosfera di pace e bellezza pura. Ma queste non erano cose che volevo sottolineare dall’inizio: le ho scoperte strada facendo.
Intervallo, Eduardo Castaldo
EC: Trovo molte similitudini con la percezione che ho avuto io. A Napoli c’erano entrambi gli aspetti, la desolazione ma anche la rivincita della bellezza pura. Una cosa che mi ha colpito è che nella città svuotata dai soliti suoni scopri altri suoni: per esempio ti accorgi che ci sono migliaia di uccelli in giro, ma col traffico non li sentivi più. Torni ad accorgerti del mare, a cui in quei giorni era vietato avvicinarsi. In poco tempo la città si è trasformata, la natura ha preso il sopravvento. Al netto delle sofferenze di cui eravamo circondati, di tutto questo ho notato anche la grande bellezza.
Da un punto di vista tecnico, nella fotografia è cambiato il baricentro. La presenza umana “inquina” lo spazio con la sua storia e con il suo racconto, come diceva anche Luca. Per una volta, il rapporto era invertito: le poche persone erano inghiottite dallo spazio, che la faceva da padrone. E in effetti, se c’è una foto iconica di quel periodo è quella del papa in Piazza San Pietro: perché di fatto non hai più il papa a Piazza San Pietro, ma Piazza San Pietro con il papa dentro.
Il papa in Piazza San Pietro a Città del Vaticano,il 27 marzo 2020
Per fotografare piazze e strade vuote in genere bisogna vederle di notte o all’alba. È possibile che il vero elemento straniante nelle immagini del lockdown non fosse il vuoto in sé, ma la luce del giorno?
LC: Credo di non aver mai fotografato un’alba in vita mia, ma fotografo tantissimo di notte. In questo caso mi interessava fotografare la città vuota di giorno, che è innaturale, ma quando poi ho visto le foto di Milano vuota sembravano scattate in una qualunque domenica a ora di pranzo, con la città vuota e sonnolenta.
Alla fine le due foto nel progetto hanno la luce fortissima delle 13 o delle 14, proprio i momenti in cui i manuali ti dicono che non dovresti scattare. Ho pensato che una luce così implacabile, una luce di ferro, potesse simboleggiare il momento duro e difficile; poi non so se le immagini trasmettano davvero questa idea.
EC: Ricordo giornate bellissime, con una luce forse anche troppo viva, che persino stonava con quello che c’era da raccontare. Poi quando lavori a una cosa del genere la racconti con qualunque luce; se è troppo forte, scegli soggetti che la gestiscano meglio.
Piazza San Marco a Venezia, © Luca Campigotto 2020
A prescindere dal lockdown, sarei curioso di sapere in che modo l’illuminazione delle città influenza le vostre fotografie notturne: quando vi è d’aiuto? quando vi ostacola?
LC: La luce bella è un problema perché stufa abbastanza presto. È sempre più interessante il controluce, la luce “sbagliata”; ci deve essere qualcosa che ti spiazza, che non si capisce da dove arrivi. Di notte ho sempre cercato di usare le luci ambientali dei lampioni, della strada, e così via, e di escludere le fonti dirette, giocando con la luce che rimbalza sugli edifici. È modulabile, è irregolare, e spesso è una luce che va a cadere, fino agli angoli bui. Spostandoti cambi il taglio, la luce e quindi il senso della fotografia, anche a prescindere dal soggetto.
EC: La luce diurna dà più margine di azione, perché è più diffusa, mentre la luce notturna cambia da passo a passo e ti condiziona molto. A me piace molto fotografare di notte e in generale mi piacciono le luci artificiali, perché offrono mille differenti sguardi e mille opportunità.
Intervallo, Eduardo Castaldo
Eduardo, nel passaggio da fotoreporter a fotografo di scena come è cambiato il tuo rapporto con la luce?
EC: Innanzitutto sul set decade un problema importante del fotogiornalismo, perché nella maggior parte dei casi fotografi persone che vogliono essere fotografate, e non persone sconosciute in situazioni sensibili. Già questo fa sembrare tutto più facile. Se poi hai la fortuna di lavorare con bravi direttori della fotografia su progetti interessanti, allora hai a disposizione luci bellissime, scenografie e fondali, e tutte queste cose ti permettono di lavorare bene. C’è molto da divertirsi.
Sulle luci che trovo non intervengo ed è molto difficile che chieda agli addetti di sistemarle in modo particolare o agli attori di fare qualcosa di particolare, a meno che la produzione non abbia richieste specifiche. In generale, da fotografo di scena devi essere molto bravo a non stare tra i piedi perché sei il primo con cui ce la si potrebbe prendere. Però sei anche l’unico sul set dal cui lavoro non dipende la realizzazione del film, quindi non senti la pressione di portare a termine le scene.